I social media: un’opportunità interpretativa?

I social media: un’opportunità interpretativa?

Uno degli ultimi “giochi” preferiti dai frequentatori della rete, in particolare, dei social media, è quello legato alla “sperimentazione interpretativa” della parola. Una sorta di esegesi del testo, svolta, però, in modo superficiale e, quindi, finalizzata non a determinare riflessioni ed approfondimenti, bensì quasi esclusivamente, estemporanee esternazioni, legate per lo più al “sentire” emozionale del momento da parte dell’autore. Devo dire, con meraviglia estatica, che ho iniziato ad approfondire questi aspetti, per capire cosa muove, trasversalmente tutti, ad intervenire in rete nella spiegazione di un testo o di un intervento che riguarda, nella fattispecie e con maggiore enfasi, quelli dei vip ed, ancor di più, dei politici. Il risultato è davvero disarmante e pedagogicamente pericoloso. Infatti, la voglia di comprensione, lascia subito il posto a quello che in sociologia, secondo Merton, era riferibile alla necessità di conformare un comportamento e più in generale «come rendere conto delle regolarità del comportamento sociale che non sono prescritte dalle norme culturali e che sono perfino in contrasto con tali norme. Il che pone in dubbio l’assunto comune secondo cui le uniformità nel comportamento sociale rappresentino necessariamente un conformarsi a norme che impongono quel comportamento».

In pratica, la sempre più crescente necessità di intervenire a commento di un post nei social media e, quindi, “conformarsi” a quello che è diventato l’unico vero modo per eccellenza di poter parlare liberamente, tanto da potersi spingere fino all’insulto e ad ogni tipo di volgarità, sembra essere diventato il concreto “paradosso” della critica dialettica ferocissima che, tuttavia, non risponde ad alcuna regola culturale. Forse, appunto, perché la uniformità di un comportamento sociale non segue canoni ben definibili. Quindi, pertanto, ogni scritto, ogni intervento in rete, diventa in assoluto la verità di “uno, nessuno e centomila”, inconfutabile in quanto priva della possibilità di un serio confronto fondato su regole certe. In pratica, si dispone un processo comunicativo che non risponde più alla concreta possibilità di approfondimento della notizia da commentare, come, al contrario, avveniva, quando esso era determinato all’interno di strutture convenzionali ben determinate: convegni, assemblee, conferenze, tavole rotonde, etc; che, seppur svolte con un suo stantio rituale, aveva però la certezza della presenza di un riconosciuto moderatore che, al bisogno, poteva intervenire per “conformare” presunti comportamenti “fuori regola”. Quindi il nuovo terreno di confronto, non regolamentato, fa sì che ciascuno di noi si senta tanto libero di esprimersi, quanto maggiore è il trasporto emotivo verso la notizia. Tutto questo, ovviamente, produce quello che nello spettacolo (ciò che di fatto è diventata la rete) si chiama FAN (abbreviazione di fanatico), il quale prende parte al “confronto” solo per offendere o difendere “a prescindere” dal vero significato dell’intervento “dell’altro”, della “controparte”. In rete sembra non esistere il periodo ipotetico della possibilità, ma esclusivamente quello della realtà che conseguenzialmente, si traduce in verità assoluta “di parte”. Tuttavia questo è un altrettanto paradosso, in quanto la rete è proprio irreale per antonomasia.

Tutto ciò determina, nella concreta realtà, una sorta di effetto a catena che muove tutti, ma proprio tutti, a prendere parte a questa “disputa” determinando una sorta di pratica ossessiva verso l’intervento, ai cui ognuno è chiamato per dimostrare di esserci, di valere, di “pesare”.

Il passo avanti (ma solo metaforicamente), rispetto a qualche tempo fa, è che non c’è più un interesse legato solo al riconoscimento del proprio intervento, attraverso il proverbiale like. Ormai si è andato oltre: l’offesa, di per sé diventa appagamento (che vale più di mille like) e, nel contempo, sfogo emozionale.

Tuttavia mi pare opportuno ricordare a quanti attivano questa “procedura” che l’emozione riposta dietro l’ego e che governa ogni sua attività non è forza, ma è paura. Paura di non essere nessuno, paura di non esistere, paura di non esserci. Del resto, ogni sua azione è in fondo creata per eliminare questa paura, ma il massimo che l’ego può fare è di nasconderla temporaneamente con una nuova relazione intima o con il vincere su questo o quello che, nella rete, consiste proprio nella illusorietà di aver detto tutto come esso era concepito dalla mente, dal pensiero, senza sconti e, quindi, sentito come momento vero e liberatorio. Ma attenzione, perché essa stessa è illusione ed in quanto tale non vi soddisferà mai.

Quindi, piuttosto che continuare a cercare di interpretare gli altri, per trovare il modo di reagire con veemenza e scontro alle loro affermazioni, rimanendo però in “superfice”; sarebbe meglio provare a comprendere di più se stessi, senza necessariamente assumere l’atteggiamento del fan che trova appagamento solo perché si è schierato con il suo idolo. Questo sarebbe un esperimento sicuramente migliore.

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